Nell’anno giubilare 1525 un frate fugge da un conventino dell’Osservanza francescana nelle Marche e va a Roma. Veste un “habitello stretto et cappuccio aguzzo”, cammina scalzo e porta una croce. Ė fra Matteo da Bascio, e lascia il convento per vivere più a fondo la regola di Francesco d’Assisi. A Roma ottiene da papa Clemente VII il permesso verbale di indossare sempre quel ruvido saio con cappuccio osservando alla lettera la regola di vita assolutamente povera. Da quella fuga solitaria è nata la terza e più recente famiglia francescana, riconosciuta nel 1528 come comunità dei “frati minori della vita eremitica” e chiamata più tardi Ordine dei Frati Minori Cappuccini di san Francesco. Insomma, "i Cappuccini", ben noti per l’abito e la barba, protagonisti allora di un importantissimo atto di riforma dall’interno della Chiesa.
Matteo da Bascio, dopo momenti di difficoltà con i superiori francescani, vide crescere i propri seguaci, uno dei più longevi di questi e nostro contemporaneo è stato Padre Emmanuele che il 29 novembre 2011 ha reso al sua anima al Signore. Padre Emanuele Pettenuzzo, uno dei pilastri del santuario mariano di Castelmonte aveva la venerabile età di 100 anni... ed è rimasto fino all’ultimo lucidissimo. La sua vita era il confessionale, quel ministero della misericordia di Dio che gli permetteva di farlo conoscere alle tante persone che accorrevano a lui. Chiedeva con discrezione se vi fossero problemi per farsi sentire partecipe di sofferenze e disagi nascosti.
Nato nel 1911 a San Martino di Lupari (PD), entrò nel seminario dei cappuccini a Rovigo all’età di 14 anni. Da chierico conobbe p. Eleuterio da Rovigo e p. Arcangelo da Rivai a Castelmonte. Fu ordinato sacerdote nel 1936 e fu subito operativo in diversi conventi del Veneto.
Nel 1937 fui inviato, insieme ad altri confratelli, missionario in Etiopia. Così un giorno ebbe a raccontare: “Il viaggio durò una quindicina di giorni. Sostammo un paio di giorni a Massaua, quindi proseguimmo per Gibuti. Ricordo il caldo di quei giorni. . . Potemmo svolgere la nostra attività apostolica di missionari fino al 1942 - si era nel pieno della seconda guerra mondiale -, quando arrivarono in Etiopia le truppe inglesi, che ci fecero prigionieri, in quanto cittadini di uno stato nemico. Tra viaggi in camion e in nave arrivammo in Rodesia (attuale Zimbawe) . Ma terribile fu il viaggio in nave da Berbera (Somalia inglese) fino Durban (Sud Africa): un caldo da morire nelle stive della nave, con svenimenti di molti, pochissimo da mangiare e rischio d'essere colpiti dai sommergibili giapponesi, che incrociavano nel tratto di mare tra il Monzambico e il Madagascar. Una delle navi che ci seguivano fu, infatti, affondata, con circa 1700 soldati e prigionieri, tutti morti. Molti morivano di stenti e di malattie varie, altri impazzivano. Uno di questi si era salvato rimanendo aggrappato per nove giorni su una specie di zattera...Nessuno dei missionari morì, ma diversi si ammalarono. Io presi l'ameba, che provocava pericolose dissenterie. Intanto, la Santa Sede si stava interessando della nostra sorte e ottenne che fossimo liberati e rimpatriati. Così, nell 'ottobre del 1943, nel bel mezzo della notte, arrivammo alla porta del convento di Mestre.
Per fortuna, un frate ebbe il coraggio di scendere ad aprire, era il padre provinciale, fra Girolamo Bortignon, futuro vescovo di Padova. Suonò campanelli e gong e tutti i frati scesero frastornati. Ci abbracciarono e andammo subito in chiesa a cantare un Te Deum di ringraziamento, quindi ci accompagnarono in refettorio a mangiare! Dopo alcuni giorni, fui mandato a Verona.”
Nel 1957 fu superiore ed economo proprio a Castelmonte.
Si impegnò per la costruzione dell’attuale Ristorante al Piazzale ed alla sistemazione dello stesso piazzale che fu ampliato. Molti di quegli alberi che noi ora possiamo ammirare e godere attorno al santuario furono piantati grazie ad una sua iniziativa in accordo con un amico della forestale: in tutto 10.000 piante! In seguito alle fatiche nel seguire i lavori, (lui stesso guidava un camion per trasportare ciò che occorreva al convento), si ammalò di cuore e dovette fare riposo assoluto per due mesi.
Aveva un’attenzione tutta particolare per il mistero della vita nascente, specialmente quando questa era messa in pericolo, come è stato ricordato dal padre Guardiano del Santuario il giorno dei suoi funerali.
e attiva, basta solo abbandonarsi nell’amore fiducioso.
Diceva spesso che era in attesa dell’incontro col volto misericordioso e amorevole del Signore. La sua serenità che dimostrava, grazie a questa speranza, era palese e molti rimanevano edificati. Nel giorno della festa per i suoi cent’anni, l’arcivescovo di Udine mons. Mazzocato che presiedeva la Santa Messa ebbe a dire:
«La sua fede è un esempio per tutti, padre Emanuele ha iniziato a cibarsi del pane di Cristo a 17 anni. E quel pane gli è bastato per tutta la vita».
In quel giorno un grande applauso lo accolse in chiesa, cos’ si è ripetuto per i suoi funerali, il saluto della sua gente e dei suoi frati, l’arrivederci in quel paradiso che tutti attende e nel quale egli ha fermamente creduto.
Aveva penitenti a amici anche da Gradisca, con queste note gli diciamo grazie!