Gradisca, municipio, 2 giugno 2011
Questa semplice, significativa, importante, cerimonia, sorge dalla scelta istituzionale (col referendum del 2 giugno 1946) e dalla elezione dell’Assemblea Costituente che preluderà alla Costituzione, legge fondamentale dello Stato, che stabilisce i principi su cui esso si fonda; i diritti, i doveri dei cittadini, la sua struttura e il suo funzionamento.
Il 2 giugno 1946 in Italia si svolgono le prime elezioni libere, dopo la catastrofe della guerra, sbocco naturale del regime fascista, che, per anni, aveva istillato sentimenti di superiorità verso o contro altri popoli; educato la gioventù alla necessità della guerra e al razzismo (le leggi razziali del 1938, non sono state che la sanzione di tale politica).
Queste terre sono state di confine; in senso esteso, lo sono ancora; ma un tempo di più, quando perfino piccoli diritti, riconosciuti o negati, potevano drammaticamente mutare la qualità della vita.
Sono stati integrazione e scontro, motivo di arricchimento e occasione di violenza.
Il termine “tedesco”, “slavo”, ad esempio, che si incontra nei documenti, poteva essere letto in modi completamente diversi.
Secoli e secoli fa, intendeva attribuire quasi sempre indicazione di provenienza, o di lontana origine, che non portava altri significati.
Più in qua nel tempo, a volte, ha voluto definire il diverso, il nemico, o peggio, l’inferiore.
Ora si cammina di nuovo su di una strada che, non senza fatica, riconduce i popoli a cercare mete comuni, sull’onda di necessità economiche, politiche, ma, per grazia, anche ideali.
La conoscenza delle lingue, la facilità dei viaggi, le nuove tecnologie della comunicazione ci rendono cittadini di un mondo intessuto di tante altre culture, con le quali confrontarsi, dialogare, non nella presunzione di superiorità offerte da una storia non priva di miserie, ma nella capacità di ascolto e mediazione.
Il numero di guerre e battaglie in queste terre è stato infinito, soltanto se si consideri l’età storica, ben documentata: i confini da superare, entro i quali entrare sono stati reali o metaforici, fisici, naturali, etnici e sociali.
Sempre, hanno lasciato strascichi di odi, che voci profetiche, dottrine capaci di attraversare i secoli (a volte, anch’esse usate negativamente, come strumento) hanno contribuito ad attenuare, se non a dissolvere.
Il 2 giugno rappresenta, senza ombra di retorica, l’inizio di un modo nuovo su cui basare la convivenza civile: prima di tutto si torna a votare democraticamente, e non sì o no per elementi già designati, come sotto il fascismo; in secondo luogo, o meglio, in un altro aspetto del primo, la democrazia è davvero completa, perché in Italia, per la prima volta, votano le donne.
Ma due altre scelte basilari sorgono da quelle elezioni: dalle urne escono i nomi dei membri dell’Assemblea Costituente, di quelli che andranno a elaborare la Costituzione, che sarà repubblicana, perché il 2 giugno si vota anche per la scelta del sistema istituzionale: e sarà scelta la repubblica.
Quella che viene elaborata nell’ Assemblea Costituente, per dirla con le parole dell’on. Corrado Belci, è una Costituzione “nata dalla Resistenza. Una Costituzione esemplare, una Costituzione vitale, non una Costituzione ‘vecchia’, una Costituzione scaturita dall’alta conciliazione delle culture liberale, marxista e cristiana sulla base di un limpido personalismo comunitario. Una Costituzione che si fonda sui principi della democrazia rappresentativa, non sulla personalizzazione del potere, non sulla demagogia plebiscitaria”.
Anche qui, nella vostra piccola comunità, si è camminato a lungo, a piccoli passi, con molti sacrifici ed ostacoli, per quella strada che avrebbe portato alla libertà e alla democrazia, e i mezzi che i vostri avi hanno adoperato per giungere alla meta sono stati principalmente la istruzione e la cooperazione. La prima, dopo esperimenti nella età napoleonica agli inizi dell’Ottocento, è stata generalizzata e diffusa (con grande difficoltà tra le donne) nella metà dell’epoca; la cooperazione, sempre unita all’istruzione, agli inizi del Novecento, e in questa direzione c’è l’esempio limpido di un vostro parroco, mons. Carlo Stacul, di lui basterà dire che fondò banche e morì povero.
Queste istituzioni, insieme con l’impegno politico di gente coraggiosa, (qui, allora Impero Austro-ungarico, ci voleva coraggio per mettersi contro i ricchi che rendevano politicamente schiava la popolazione) hanno portato all’uguaglianza generalizzata sul piano politico e del diritto. Gradisca era un centro per i cattolici di Faidutti e i socialisti di Pittoni.
Oltre a tutto, il trovarsi in questa posizione geografica, ha consentito ai vostri avi di provare in anticipo un esperimento di Europa, molto prima che si incominciasse un lungo lavoro di ricomposizione, dopo le tragedie del nazionalismo, sfociate in due guerre mondiali.
Un mondo che cambia rapidamente, chiederà, soprattutto a voi giovani, preparazione, ampia capacità di essere solidali; i due pilastri che reggeranno il vostro pensiero, anticipatore della azione, saranno ancora l’istruzione e la partecipazione, nonostante la durezza dei tempi!
Vi consentiranno di affrontare inevitabili difficoltà della vita; vi renderanno possibile la difesa della democrazia, giorno per giorno, con l’impegno in prima persona, senza deleghe acritiche. Vi renderanno possibile la difesa della Costituzione da egoistici attacchi di chi ha di più, e non vuole che anche il potere politico abbia bilanciamenti e controlli.
In questa vostra piccola, bella comunità, orgogliosamente gelosa della propria autonomia, vi auguro che possiate dire con Pericle, ideologo della democrazia ateniese del V sec. a. C., di “considerare il cittadino estraneo agli affari pubblici non come un essere libero, ma come un essere inutile”.
Ma ancora due punti vorrei sottoporre alla vostra e nostra riflessione:
La celebrazione di questa giornata rende sempre più attuale il pensiero del padri costituenti, espresso subito dopo l’immane secondo conflitto, nell’articolo 11 della Costituzione repubblicana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”, e il rispetto e la vicinanza alle forze armate, sono proprio nella inderogabile fedeltà a questo spirito.
Nel profetico discorso “Il Cristianesimo e il dialogo fra le culture”, uno dei quattro moderatori del Concilio Ecumenico Vaticano II, il card. Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, invitava a passare dall’universalismo quantitativo all’universalismo qualitativo, ricordando che la cultura occidentale è solo una delle culture.
Il suo argomentare è articolato, ampio, indirizzato nella tradizione ecclesiale cristiana, ma, data la sua capacità di rivolgersi a tutti, si possono estrapolare alcuni punti di analisi e alcune indicazioni che facciano guardare gli uomini in termini meno ristretti.
Dopo avere ricordato che “Dio impedisce persino che sia sparso il sangue di Caino; egli protegge lo stesso fratricida con un segno misterioso perché nessuno lo uccida”, esamina i sistemi di violenza in questo mondo, dichiara che la non violenza non è rinuncia; sottolinea che “Nella nostra società…la violenza più insidiosa, è proprio la violenza paludata dal possesso d’autorità”, dove, per spirito di parte, si dimentica che il vero senso del potere ha per fine ciò che “il vocabolario conciliare ha evangelicamente identificato con il servizio a una società ”.
Egli ricorda, inoltre, che al “sistema di guerra” bisogno sostituire la scoperta gioiosa della pace “costruita sulla vicendevole fiducia”, pur argomentando che il “sistema va inventato con la collaborazione di tutti, singoli e chiese, società e rispettando all’interno del proprio modo di essere, le condizioni insostituibili della pace: la giustizia, la verità”.
Per queste realizzazioni, insisteva sul rovesciamento del detto latino che basava la pace sulla esibizione della forza, coniando un “si vis pacem, para pacem”, “se vuoi la pace impegnati a promuovere la pace”, e questo mediante quella che chiamava “pedagogia della pace”.
Qui è stato riportato soltanto qualche lampo del suo pensiero, che forse può aiutare a riflettere, e magari a raggiungere un concetto di patria espresso con solare profondità da Celso Macor nella poesia “Aniversari”:
“Patria ’l è un alc di plui font dal possès, ’l è un alc
di tiara e di sot-tiara, ‘l è un splan samenât a larc,
lidriis e spazis no’ nd’àn filiadis e palès blancs,
‘l è un puest dolz di paris e vôns e fradis,
ancia ciaviestri par traditôrs ch’a’ odèin a batain
cul colôr da piel e sul sunsûr da paraulis;
‘lè un incrosâsi di storia, un ciatâsi adun
par cianâi s’giavâz da man di Diu, bon e disubidît…”.
"Patria è un qualcosa di più profondo del possesso, è un qualcosa di terra, di sottoterra, è una pianura seminata a largo, radici e spazi non hanno recinti e paletti bianchi, è un posto dolce di padri e avi e fratelli, anche sinistro per traditori che odiano e battagliano sul colore della pelle e sul suono delle parole; è un incrocio della storia, un trovarsi insieme per canali scavati dalla mano di Dio, buono e disubbidito...".
E qui troviamo il senso dell’identità e della universalità sulle quali misurarsi nel futuro.
Ferruccio Tassin