"Possa ciascuno imparare a sopportare il peso dell'altro. Questa è carità".
Si è presentato così, citando San Paolo, l'ex parroco di Lampedusa don Stefano Nastasi, ospite per alcuni giorni della comunità parrocchiale di Gradisca. Così lontane, così vicine.
In prima linea nell'affrontare il dramma dell'immigrazione. Il sottile filo rosso che unisce Lampedusa a Gradisca, la città del Cie e del Cara, è divenuto forse un po' piu' chiaro e tangibile dopo la visita dell'ormai ex parroco della località siciliana, da vent'anni destinazione degli sbarchi di migliaia di profughi. Sabato sera il sacerdote è stato protagonista di un incontro sul tema “Andiamo incontro ad ogni miseria”, organizzato dall'Unità Pastorale di Gradisca in collaborazione con Caritas e Fondazione Migrantes e con il patrocinio dell'amministrazione comunale; domenica, invece, ha portato la propria testimonianza alle messe festive della comunità. Su quell'isola che era fino a poco tempo fa la sua parrocchia, la condivisione dei pesi è la Parola che don Stefano predica ai fedeli e pratica assieme a loro.
Nella primavera del 2011, questa disposizione all'incontro ha consentito di aiutare migliaia di migranti. Lui si è schernito, anche di fronte all'inedita visita di Papa Francesco all'inizio del suo pontificato: “Buono io? Faccio quello che farebbe qualsiasi cristiano e che fanno tutti i lampedusani. Lampedusa ha salvato l'immagine dell'Italia e l'Italia non può più lasciarci soli, come se fossimo un mondo a parte” ha affermato in sala Bergamas, dove ad accoglierlo c'erano il sindaco Franco Tommasini con la sua giunta, il parroco don Maurizio Qualizza, il direttore della Caritas diocesana don Paolo Zuttion. Proprio Tommasini ha ricordato la contrarietà della città alla riapertura del Cie e anche all'ampliamento del vicino Cara, la struttura per richiedenti asilo.
"Ma il nostro non è egoismo - ha argomentato il sindaco - semplicemente siamo una comunità piccola. Eppure capace di lanciare progetti di integrazione che non hanno precedenti in Italia". Don Nastasi, dal canto suo, ha sorriso. Perchè anche Lampedusa è una piccola comunità, emarginata dal Paese piu' di quanto non dicano i 220 chilometri di distanza dalla Sicilia o le 8 ore di navigazione necessarie a raggiungerla. "Capisco, e conosco bene per averle vissute, le amarezze e le preoccupazioni del sindaco e di tutti voi - cosi' il sacerdote -. Anche noi abbiamo pensato piu' volte di essere stati lasciati soli, con 8mila persone a cui dare assistenza. Anzi, qualcuno ha volutamente cavalcato l'emergenza sbarchi proprio per non decidere il da farsi. La verita' è che questo Paese non si è fatto trovare pronto dinnanzi al fenomeno dell'immigrazione. Abbiamo cercato di tamponare le falle del sistema dopo questo tsunami umano - ha proseguito don Stefano - ma è stato un dovere come cittadini e come cristiani. Siamo testimoni di una guerra muta e silenziosa, di cui non si vede la fine. Eppure la differenza la fanno non i numeri, ma il rapporto che si riesce ad instaurare con questi fratelli. Questo cambia tutte le prospettive di accoglienza e, un domani, ci auguriamo anche dell' integrazione in questo Paese.
Se pochi devono portare questo peso, certamente cederanno. Ma se ciascuno metterà al servizio del prossimo il suo "poco", potremo fare.
l.m.